Concatenamento Cresta di Casies

55 km, 4434 D+, 16 ore.

Partenza alle 22e 30 di lunedì, arrivo alle 14 e 30 di martedì. Ho concatenato 14 cime fra le più care a me. Dall’hochhorn all’Aukserspitze.

Questa parte del viaggio la chiamerò:  PERCHE’?

Perché?? Ma perché lo sto facendo? Più volte me lo sono chiesto mentre tutto infreddolito seduto su un sasso mangiavo quella pasta inguardabile che fa schifo a tutti voi ma che io ho tanto amato.

Perché? É una domanda a cui continuo a cercare di rispondere e chissà, magari leggendo capirete meglio voi di me.

Questo giro è un sogno che ho da almeno un paio di anni. Ovvero concatenare tutte le cime della cresta di Casies. In particolare quelle che stanno care a me, ovviamente. 

Nel tempo ho percorso diverse volte pezzi ed esplorato tratti di creste da solo e in compagnia per capire quanto fosse possibile fare una cosa di questo tipo.

Facendola a pezzi ho scoperto quanto sia maledettamente lunga e questo non ha sicuramente facilitato la mia organizzazione.

Ma ieri mi sono deciso. Consapevole di avere necessità di almeno un giorno e mezzo per fare il giro ho calcolato un po’ tutto in base al meteo e agli orari di lavoro e ho deciso di provarci.

E’ lunedì. Io ho preparato tutto. Ho deciso di partire con lo zaino da escursionismo per potermi portare dietro più cose nonostante questo rallenterà sicuramente il mio passo. Ho quantità di cibo per un esercito mentre per quanto riguarda la qualità forse è meglio se cambiamo discorso. Ho preparato una pasta fredda improbabile ma non ho trovato altre soluzioni ad un possibile pasto diverso da panini frutta o merendine.

Vado a fare un’ora di lezione con le ragazze a Valdaora e ne sono felice perché mi svia da tutte le preoccupazioni dell’ultimo momento. 

Torno a casa alle 20 e 30, una doccia, una seconda cena con crostini burro e salmone e poi… tocca partire. 

Madonna quanto sono agitato. Lo zaino è fatto, ma avrò preso tutto quello che mi serve? Mah, pesa 20 kg per cui vuoi che mi sia dimenticato qualcosa? Poi c’è il meteo , maledetti temporali statevene a casa vostra. E i lupi? Gli ornitorinchi? 

Non sono mai stato tutta la notte da solo in montagna. 

Ho paura. 

Accendo il motore della macchina e mi avvio verso la vicina valle di Casies. Probabilmente per ritardare l’inizio della partenza procedo a 20 km/h. Si sta sicuramente meglio in macchina che non di notte in montagna no? 

Parcheggio davanti alla mia solita chiesetta poco prima di S. Martino in Casies. Sono talmente organizzato che non ho idea di dove terminerò il giro e chissà come farò a ritornare alla macchina. Per precauzione prendo anche le chiavi di casa che non si sa mai. Ho con me anche due telefoni, due torce, settantasette pile di ricambio, bandane a più non posso, 2 litri d’acqua, due paia di guanti. Insomma, sono equipaggiato.

E’ ora di partire ragazzi.

Questa parte del viaggio la chiamerò: CHE PAURA!

partenza dalla Val Casies (St. Martin)

Mi faccio coraggio guardando i 12 gradi che segna il termometro esterno dell’auto, dai non male!

Sono le 22 abbondanti quando chiudo la macchina e inizio la mia avventura. 

Lascio spenta la frontale per i primi metri osservando le luci della valle silenziosa. 

Mi addentro subito nel bosco e accendo la frontale puntandola più davanti che ai miei piedi.

La salita la conosco come le mie tasche  ma nonostante ciò sono estremamente nervoso. Non so a quanti di voi sia capitato di stare da soli di notte nel bosco ma per me non è certo la sensazione più piacevole di tutte.

Cammino deciso ma sento già il maledetto zaino che pesa. Ma che cazzo ci ho messo dentro?

Dopo 5 minuti ho un flash: “ cazzo il cavo del telefono” . L’ho lasciato in macchina maledizione. Sarei ancora in tempo per tornare indietro ma la sola idea  di ricominciare mi fa ribrezzo per cui tiro dritto pensando alla sicurezza del secondo telefono.

La strada bianca è maledettamente ripida e io sto facendo troppa fatica. Mi tolgo la felpa perché sto già sudando troppo. Questa vorrebbe essere la salita in cui evito di stancarmi troppo siccome ho tanta strada da fare. Mentre cammino verso l’alto la mia frontale illumina qualsiasi cosa si muove ma anche qualsiasi cosa che non si muove. Sono passati 20 minuti e ho già il torcicollo. Una farfalla entra nel mio campo visivo illuminata dal faro che ho in testa e faccio quasi un salto di paura. Annnnamo bene.

Procedo più piano che posso. Salgo con calma per cercare di controllare il più possibile le energie da spendere. Il problema è che quelle mentali stanno sparendo in un batter d’occhio. Arrivo alla fontana e bevo subito un po’ di acqua fresca dissetante. 

C’è uno spazio aperto intorno a me. Un grande prato, una malghetta dove di solito ci sono alcuni pony che pascolano. Oggi non ci sono. Vedo però degli occhi nel bosco. Riparto in fretta, via!

Arrivo alle malghe superiori dove un gruppo di mucche si sveglia fragorosamente (sarà una cosa ricorrente) cercando di capire chi è il mona che va in giro alle undici di sera. 

Un paio di loro, con grandi corna, non sembrano intenzionate a spostarsi per cui salto la corda di recinzione e le evito. 

Esco quindi finalmente dalla boscaglia e già il mio umore ne trae vantaggio. Vedo molto più lontano e non so perché ma tutto mi inquieta molto meno. Seguo il mio fidato sentiero con molta più attenzione del solito ma direi che ci sta. Raggiungo presto la cresta che porta alla cima del monte Hochhorn, mia prima meta. Si alza un po’ di vento. Ah però è bello fresco quassù! Azzzzz che freddoooooo. Sono sudato e l’aria è pungente. Compaiono piccoli banchi di nebbia che mi investono e spariscono più veloci di come sono arrivati. 

Mi rimetto la felpa. Metto i guanti. Il modo più veloce per scaldarmi e aumentare la velocità.

Gli ultimi metri li faccio senza sapere dove sia la croce perché non si vede nulla.

Per fortuna è facile orientarsi fra le stanze di casa.

Arrivo in cima. E’ mezzanotte e venti minuti e ci ho messo poco meno di due ore. 

Mi guardo in giro, ma dove guardo? Fra buio e nebbia già è tanto se per terra. Mi viene per un momento il dubbio di non riuscire ad orientarmi ma scaccio subito il pensiero. Madonna che freddo. Mi metto il guscio e i guanti. Cerco di mangiare qualcosa velocemente ma non ho assolutamente fame anzi, zero voglia di mangiare. Mangio una crostatina ma ho poca voglia.

Scrivo a chi mi fa supporto morale da casa che è tutto a posto. 

Che faccio? Mi siedo? Mi vesto? Mangio? Solitamente spendo del tempo in cima alle montagne per osservare, riposarmi, ristorarmi. Ma qui non si vede nulla, non mangio, e fa troppo freddo per riposarmi…via allora!

Questa parte del viaggio la chiamerò: CASA

Riparto in discesa per la cresta. Sento lo stress e la paura della notte. La paura di non trovare dove andare o che mi succeda qualcosa. Ogni volta mi ripeto che so dove sono e che so gestire tutto questo. Un passo alla volta Marco. 

Il sentiero in discesa non è difficile e dopo pochi metri inizio finalmente a sentirmi sicuro. La nebbia sparisce come se fosse tutto calcolato e io muovo agilmente i miei piedi fra la terra e l’erba ripida. Dove la pendenza cala cerco di corricchiare anche se lo zaino pesante non lo rende agevole. Il tratto di cresta fra hochorn e gaishorndl mi diverte un casino. Inizio a sentire il caldo e mi tolgo il guscio. L’aria fresca mi investe ma è un super refrigerio. 

Passando da discesa a salita la mia testa stacca da tutto ciò che sto facendo e inizio per la prima volta a pensare ad altre cose. Mi sento a mio agio, sono in pace ora. Sono a casa.

Salgo velocemente il breve tratto che mi porta in cima al Gaishorndl (2613 mt) seconda cima di giornata. 

Anche qui in cima si sta bene domani. L’aria torna ad essere potente e a me bastano 2 minuti per raffreddarmi. Mi accorgo che la gestione della mia temperatura sarà fondamentale. Mi rimetto il guscio senza fare l’eroe. Cappuccio in testa e questa volta non mangio proprio niente, meglio andare via subito e abbassarsi di quota. 

Taglio e faccio un pezzo fuori sentiero per risparmiare strada. Scendo giù ripido ripido fra le erbe cercando di raggiungere presto il sentiero sul lato austriaco. So che non ci sono sorprese perché sono stato qui due settimane fa, ma al buio mi sento molto più in pericolo per cui ho le antenne altissime.

Muovo i piedi con calma e decisone e presto vedo i cartelli poco sotto di me. 

Vorrei fermarmi a fare una piccola pausa ma soffia anche forte il vento e io non mi sono ancora scaldato.

Sono sulla cresta di confine e guardo il telefono per capire che scelta fare. Mi rendo conto che il giro sarà estremamente lungo per cui decido di tagliare due cime a cui tengo molto (korlpspitz e hochstein) che mi farebbero allungare la strada un po’ troppo. Decido di fare un tratto in Austria, devo solo stare attento a dove prendere il sentiero perché il collegamento non sembra esserci. 

Riprendo ancora un tratto in discesa dal lato Casies  e sento che le gambe sono comunque già affaticate. Annamo bene (2) 

Poi prendo il traverso che passa sotto la cresta. Pieno di sassi, alterno camminata veloce a momenti in cui mollo le gambe e prendo velocità. Inizia un saliscendi terrificante che è proprio il peggio per il mio fisico ma per fortuna sono ancora molto pensieroso sul da farsi per cui la fatica non si sente. Raggiungo nuovamente la cresta spartiacque e questa volta lascio il sentiero sulla sinistra per rimanere alto sullo spallone verde. Mi viene in mente di salire sul Multerspitze, cima a cui sono molto legato per le diverse strepitose uscite scialpinistiche molto polverose. Ma controllo la mappa e decido di calarmi a destra per i prati dove sembra esserci un modo facile per raggiungere il sentiero tedesco. 

Questa parte del viaggio la chiamerò: L’IGNOTO CHE MI GUARDA.

Cresta hochhorn

La prima volta che guardo giù davanti a destra non vedo niente di buono. La cresta scende leggera per 5 metri e poi piomba verticale dato che non vedo più nulla. Arretro di qualche metro e trovo più a destra terreno più agevole. Controlla la mappa e vedo di essere in direzione corretta. Inizio a scendere alzando l’attenzione a mille. Il terreno è molto umido e l’erba scivolosa. Metto i piedi sulla terra morbida e seguo tracce di camosci che portano verso il basso. Il mio segnale gps si avvicina sempre più alla traccia per cui sono molto tranquillo. Passano pochi minuti e la vedo sulla destra. La prendo e ritorno a rilassarmi.

Inizia un tratto facile sostanzialmente in piano. La traccia è evidente e traversa in orizzontale i prati che scendono dalla cresta. Per aggirare qualche sperone devo risalire e poi scendere per qualche metro ma qui riesco a procedere abbastanza velocemente. Ad un certo punto illumino davanti a me e vedo degli occhi fissi verso di me. La frontale ha questa caratteristica di riflettere gli occhi degli animali e segnalare la loro presenza anche se sono lontani o altrimenti difficilmente visibili perché mimetizzati. Incuriosito, continuo a puntare verso avanti il raggio di luce e osservo che ad intermittenza gli occhi ricompaiono a fissarmi. Dev’essere un camoscio. Osservo con quale spaventosa velocità si sposta verso l’alto. Ahhhhh magari avere le sue gambe!

Non faccio tempo a girare l’angolo che vedo sulla destra una dozzina di occhi che mi fissano. Sussulto. 

Ci metto un paio di secondi a riprendermi dallo spavento e cerco come prima reazione di capire quali bestie siano.

Sono abbastanza vicino e puntando la frontale in modo più intelligente vedo delle sagome molto grandi, sono mucche! Non faccio a tempo ad avvicinarmi che si alzano tutte e si girano verso di me. La maggior parte di loro sono in basso a destra mentre una occupa, ovviamente, il sentiero. 

La aggiro e proseguo la mia camminata osserando altri occhi in altro a sinistra che mi guardano. Madonna ma quanti animali ci sono qui? 

Questa volta Gigio (così l’ho chiamato) si palesa immediatamente tirando un soffio camoscioso ben riconoscibile. 

Distratto da questi incontri costanti non ho neanche notato quanta strada ho fatto. Guardo la mappa tabacco e osservo che il mio pallino gps non è molto lontano dal kalksteinjochl. Lo raggiungo superando qualche tratto dove alla mia destra si vede la montagna cadere molto ripida ma stando sul sentiero è comunque tutto tranquillo. 

Raggiungo il passo e procedo diritto verso la cima del Gail. In ogni caso sto allungando il percorso ma questa è una delle cime in cui ho deciso di salire per forza quindi non posso mica cambiare idea no?

Ritornando dal lato Italiano, il vento torna a spazzare con potenza. Il freddo mi investe nuovamente e ripartire in salita è una catastrofe. Penso un attimo se fare una piccola pausa ma decido di farla in cima.

Inizio la salita (breve) per la cima mentre sulla sinistra compare una fila ordinata di luci che mi sembrano esoteriche. Sembrano illuminare un casolare e una strada alla sua destra e alla sua sinistra. Sono lontane e non capisco se sono vicine o se sono sotto in val Casies. La profondità non è la cosa più facile da intuire di notte. 

Sotto la cima trovo un altro camoscio. Lo vedo seduto appollaiato su un roccione e rido pensando che tutte le sere questo dorme in cima ad una cresta. Non so perché ma mi immagino sempre che questi animali dormano dentro grotte o buchi o tane ma non è così. 

Proseguo verso l’alto sentendo però che ho bisogno di una pausa. Le energie sono un po’ consumate e ormai son in giro da quasi 4 ore.

Raggiungo la cima del Gail alle 2 e 10 di notte.

Anche qui come in tutte le altre cime passate fin’ora fa troppo freddo per restare. Scatto un paio di foto e questa volta non mi vesto neanche dato che sento il bisogno di andare in bagno e non è il caso di farla qui 😀 

Scendo correndo cercando un posto più riparato e più lontano dal sentiero. Ma proprio in cima mi deve scappare? 

Dopo aver trovato un posto riparato e aver fatto tutto quello che dovevo fare mi vesto e mangio un paio di barrette. Continuo a non sentirmi particolarmente bene di pancia e faccio fatica a mangiare. Il corpo vorrebbe dormire e sento che non ha i ritmi corretti ma devo assolutamente trovare delle soluzioni perché senza cibo è difficile proseguire. Per fortuna riesco a bere molta acqua ho già praticamente finito i due litri che avevo con me. 

Qui compio un’altra scelta che di fatto allungherà clamorosamente la mia gita e con il senno di poi avrei potuto trovare un’altra soluzione. La prossima meta è il rotlahner, altra classica scialpinistca. Per raggiungerla ho due alternative. Potrei scendere in Italia e risalire facendo molta meno strada ma poi percorrendo un pezzo avanti indietro (cosa che ho fatto con il Gail) oppure scendere in Austria dove arriverei molto più in basso e fare molta più strada.

Non so perché mi faccio sempre attrarre dal dislivello maggiore e decido di scendere in Austria (dove sono già stato l’anno scorso per provare il percorso). Così sicuramente l’anello verrà più naturale ma, ecco, questa sa molto di zappa sui piedi.

Questa parte del viaggio la chiamerò: AUSTRIA FREDDA, ISOLATA E TRISTE. 

Rotlahner

Prendo il sentiero che scende verso la Rosstal in Austria. L’ho percorso l’ultima volta e mi ricordo pendenze sostenute che ritrovo in discesa. Ricordo anche un sentiero acquitrinoso e anche qui non mi sbaglio. Muovo i piedi su una mezza palude stando molto attento a non impantanarmi troppo. Bagnare i piedi la vedo come una cosa grave nonostante io abbia con me anche dei calzini di ricambio (che bravooo). Mi distrae un altro paio di occhi che però non riconosco ma ormai mi sono ambientato nell’ambiente notturno per cui non mi spavento neanche più. 

Ogni tanto mi guardo in giro e rischio di fare tomboloni visto che il sentiero continua a non mollare di un centimetro la sua pendenza. Procedo ancora con ritmo molto sostenuto in discesa raggiungendo con grande velocità il punto più basso e di incrocio con il sentiero di risalita. Prima di ripartire mi fermo a riempire le borracce di acqua proprio ne punto in cui contavo di trovarla. Mi compiaccio dell’organizzazione e questo da molta autostima nel proseguo del giro. 

Ingugrito un po’ di frutta secca ma neanche questa sembra una buona soluzione.

Inizio a risalire per uno stradino bianco che è per fortuna più alto del bosco per cui di nuovo niente allarmismi. Tutto ciò ovviamente dopo aver ispezionato furtivamente con la frontale ogni angolo vicino a me per scongiurare la presenza di mostri notturni. 

Come ogni maledetta volta inizio la salita cercando di andare più piano che posso per dare il tempo al mio corpo di abituarsi. Certo che più piano di così sto fermo. Madonna che fatica. Abbastanza terribile. Boccheggiando cerco di sbuffare come se questo aiuti. Come se non bastasse la strada bianca finisce e inizia un sentiero troppo ripido per essere vero. 

Cerco in tutti i modi di abbassare il battito cardiaco e di respirare in modo più regolare possibile ma sento i quadricipiti fare più fatica del solito. Ci metto almeno 5 minuti a regolarizzare tutto e a tornare alla sorta di equilibrio che permette una salita senza consumare tutte le energie. 

Non passa molto tempo prima di tirarmi un’altra zappa sui piedi. Quando finalmente la traccia devia verso destra perdendo visibilmente di pendenza, vedo una traccia minore tagliare diritta verso l’alto. Perdo 20 secondi per controllare sul telefono se perderei la direzione giusta e, dopo una verifica positiva, decido di continuare sul ripido. 

Ma guarda che sono coglione eh!

Stramazzando di fatica guadando quota nell’attesa di ribeccare la traccia CAI che però non intravedo più. Alla mia sinistra osservo un torrentello  che nel tempo ha scavato un grosso buco che rende i suoi argini molto ripidi. Lo vedo tagliare sempre più a sinistra e improvvisamente capisco che sta maledetta traccia mi porterà sempre più lontano dall’originale a meno che non ci sia un modo per attraversare docilmente il torrente più su. Per un attimo mi convinco che ci sarà ma per fortuna in un momento di lucidità decido che è un problema da risolvere subito. Mi attacco all’argine continuando a salire fino a quando non vedo un punto che mi sembra agibile. Con poche difficoltà per fortuna attraverso il corso d’acqua e risalgo sull’altra sponda. Questa manovra dovrò farla una seconda volta per superare un secondo torrentello che si trova fra me e il sentiero. Tutto ciò continuando ad insultarmi e imprecare contro la mia stupidità. Eh, capita.

Dopo questi sforzi extra, sono devastato. La fatica mentale di questo piccolo intoppo si è unita a tutta quella fisica che avevo. Ormai sono di nuovo a quasi 2400 mt e il vento si sta alzando di nuovo.  Inizio ad avere freddo, troppo. Mi guardo in giro. Tutto buio e nero ovviamente. Sento un po’ di solitudine. Sento la voce stronza che mi richiede “ma perché sei qui?” Cerco di capire quando mi manca alla cima che ho sopra ma poi, in un secondo momento di lucidità, decido che è inutile sforzarmi in nome di chissà chi. Mi fermo, mi vesto e cerco un sasso su cui sedermi. Bardato (tranne le braghe corte), mi impongo di mangiare qualcosa. Non ho più molte scelte, mi mancano da assaggiare i panini allo speck e la pasta fredda. Tiro fuori il sacchetto con il Tupperware e la forchetta (ancora una grande dose di autostima per la grande organizzazione). Apro il contenitore e devo dire che sta pasta non fa mica voglia. Ma non sarà perché fa schifo vero? 

Inizio a mangiarla e devo dire che, anche se con poche speranze, la mangio volentieri. Approfitto della mia propensione a mangiarla per farne fuori quasi più di metà (ne ho tanta, direi più di 200 grammi). Tiro fuori la borraccia sperando che nel frattempo l’acqua si sia riscaldata ma anche qui i passaggi della fisica mi sfuggono. Gelata. 

In tutto ciò la mia posizione è sempre più rannicchiata e sento freddo. Non posso stare troppo fermo. Così dopo credo 5 minuti massimo, riparto in salita. Con guscio e guanti addosso mi sento un po’ più impacciato nella camminata ma sono molto felice di essere finalmente riuscito ad ingerire numerose calorie e il mio umore è di nuovo alto. Le gambe sembrano essere rinate e sorrido nuovamente pensando che non può essere già la pasta ma evidentemente è l’umore che da infinite energie. 

Pimpante e reattivo, inizio pure a sentire troppo calore e mi tolgo il guscio.

La traccia ora va a zig zag molto larghi fino ad incrociare i caratteristici cartelli austriaci gialli che mi indicano la vicinanza con il Kreuzspitze. Inizialmente ero convinto di lasciarlo perdere perché assolutamente lontano dal mio programma originale ma poi vedo lì la croce a 30 metri e ne sento il suo richiamo. La raggiungo e prendo un’altra botta di freddo clamoroso. Faccio due foto congelandomi la mano senza i guanti e poi riparto immediatamente verso il basso. 

Scappo talmente veloce dalla vetta che rischio di perdermi la deviazione verso il Rotlahner. Risalgo 5 metri per riprendere la traccia provo a prendere velocità sulla cresta in discesa per scaldarmi. Passano un paio di minuti ma il freddo percepito invece di diminuire sembra aumentare. Mi fermo di nuovo a mettermi il guscio. Mentre appoggio lo zaino per terra osservo i fili d’erba bianchi e completamente inzuppati di acqua. Controllo il termometro che ho appeso sullo zaino. Segna -3 gradi!!!! A volte esagera ma vi assicuro che il freddo si sentiva tutto. 

Procedo in falsopiano su una cresta camminabile dove a sinistra ci sono i prati da cui sono salito mentre a destra la montagna cade a strapiombo. Sto molto attento a dove mettere i piedi dato che la traccia corre più a destra che in mezzo e nonostante ci sia un sentiero spesso le ghiaie dure dove metto i piedi nascondono qualche insidia. Il freddo continua a pungermi nella schiena e sul collo bagnati mentre le gambe sembrano inossidabili. Vedo i peli bagnati dall’umidità notturna ma niente freddo. Le scarpe ormai invece sono inzuppate. Considero per un momento la possibilità di cambiare i calzini ma si inzupperebbero in dieci secondi anche quelli asciutti. Proseguo quindi mentre l’abisso a destra mi ricorda qualcosa di molto tenebroso. Sbuco in un tratto incastrato fra due spalle di roccia dove vedo molta erba e una esile traccia. Percepisco nuovamente un po’ di strizza più che altro per l’ambiente isolato e senza troppe vie di fuga. La sensazione cresce quando il sentiero si inerpica fra tratti rocciosi che non ricordavo minimamente.

Cerco di scacciare le ansie concentrandomi su dove mettere mani e  piedi e sul fare un passo alla volta. 

La cosa bella dei momenti in cui ho paura o devo alzare l’attenzione è che non sento più la fatica.

Nel buio della notte gli unici rumori che sento sono le folate di vento saltuarie e il mio ripetitivo sbuffare nei tratti di salita. In uno dei momenti di trance della notte inizio a soffiare imitando un camoscio. Così, a sensazione, non credo di esserci riuscito e non credo neanche sia stata una bella scena. Spero i camosci mi possano perdonare. 

Superati i tratti ripidi ripidi la montagna spiana, l’erba diventa alta e di conseguenza mi inzuppo ancora di più scarpe e piedi. Sono ormai vicino alla cima e con grande felicità vedo finalmente l’omettone di pietra gigante che sancisce la fine della seconda lunga salita di nottata. Accarezzo l’ometto con un tocco delicato della mano e subito mi siedo abbassandomi per evitare di essere investito dalle correnti che mi sembrano sempre più gelide.

Mentre aggiorno a casa osservo che sono ormai le 4 e 15 di mattina. Mi diverto pensando che senza neanche farlo apposta sto dando mie notizie ogni due ore ma è tutto un caso dato che sto aprendo il telefono solo in vetta alle montagne. 

Questa cima rappresenta per me un primo step raggiunto. Qui inizia una delle parti che conosco meglio per cui un primo sospiro di sollievo mi conferma una tranquillità maggiore. In più so che fra meno di due ore arriverà la luce e quello sarà il vero segnale che avrò per dimostrarmi che sto facendo una cosa normale. Ma ecco, per il momento sento che ancora non c’è nulla di normale. Rimango seduto due minuti prima di scoprire che nemmeno qui riesco a stare, maledizione! Avrei certo l’opzione di vestirmi con tutto quello che ho con me per resistere al freddo ma sono sicuro che avrei freddo lo stesso e soprattutto dopo 2 minuti di discesa dovrei rispogliarmi da capo. Perciò faccio la solita foto rito, guardo in giro dove come al solito non vedo niente e poi mi incammino verso la cresta.

Questa parte del viaggio la chiamerò: ATTESA 

Riepenspitze

Inizio la discesa calpestando zone dove sono stato più con gli sci che senza. Questa cresta che spesso d’inverno mi innervosisce per neve dura e ventata d’estate mi sembra una passeggiata domenicale. Sarà perché di notte non si vede il buco che c’è a destra quindi non è possibile avere vertigini. Di testa mi sento completamente immerso in quello che sto facendo. Questo è l’ennesimo tratto in cui decido di rallentare il passo per stare più attento a dove metto i piedi. So cosa sto facendo, so che non posso sbagliare niente e mi regolo di conseguenza.

Esco anche da questo tratto facile ma trappoloso senza alcun tipo di problema e arrivo all’incrocio con la cresta che porterebbe alla prossima meta, il Riepenspitze. 

Mi fermo un attimo ad osservare la traccia che risale verso la cresta e per un momento mi balena in testa l’idea di seguirla ma non l’ho mai fatta neanche di giorno e decido ancora saggiamente di non cacciarmi nei guai. Seguo quindi il secondo traverso austriaco che passa a destra. Un primo passaggio porta ad alcuni tornanti in discesa che seguo solo perché so dove mi portano. Poi un altro tratto leggermente esposto in cui scendo e risalgo un piccolo canyon e poi ancora traverso. 

Mi rendo qui conto che sono tranquillo solo perché ho già visto questi posti di giorno altrimenti probabilmente non avrei proseguito.

Inizia qui una parte in saliscendi che mi stecca nuovamente ogni volta che devo risalire anche solo per due metri. Sento di nuovo le energie mancarmi e mi ricordo che è da diverso tempo che non faccio una pausa. Ascolto l’aria e sento di essere in un punto in cui il vento non soffia molto forte per cui cerco un sasso e deciso di riposarmi un po. Mi inguscio, tolgo lo zaino e mi siedo in un rituale che ormai ho seguito già diverse volte. 

Tiro nuovamente fuori la pasta che mangio di nuovo con grande piacere. 

Mentre mangio ho per la prima volta tempo di fermarmi a riflettere. 

O forse lo avevo anche prima ma adesso lo sto facendo.

Riflettere poi non si sa cosa significa ma per me è fare un punto della situazione.

Mi sento stanco. Il freddo ormai lo sto gestendo da diverse ore e non è più un problema ma non vedo l’ora che arrivino le 6. A quell’ora nella mia testa finisce la notte e finisce quindi la parte più delicata del giro. Finisce la notte. Finisce la vera avventura. 

Non sono stufo, ma ecco vorrei che arrivasse presto la luce. Mantenere alta l’attenzione e la lucidità è stancante e ora ne sento tutto il peso. Ho voglia di relax. 

Sono le 4 e 45 ancora. 

Finisco di mangiare la pasta cercando di lasciarne ancora per un ultimo round di cibo non merendoso più avanti.

Continuo il banchetto mangiando non so cosa e ogni tanto mi diverto a spegnere la frontale per vedere meglio il cielo.

E’ la prima volta in cui mi fermo ad osservarlo per più di un minuto. Ci sono una marea di stelle e finalmente non vedo nuvole all’orizzonte. 

Alcune sono super luminose e alcune le riconosco pure.

Vedo anche una stella cadente e mi chiedo quante ne avrei viste se fossi stato tutta la notte con lo sguardo all’insù. Probabilmente cento ma non sarei qui a raccontarlo 😀 

Si vedono anche dei satelliti che si muovono più o meno velocemente e all’improvviso la mia attenzione ricade su una cosa diversa. Vedo una stella con una scia. Non so bene come identificarla. Sembra una stella cadente lentissima ma direi che non può essere. Ci faccio pure una foto e magari prima o poi chiederò l’opinione di qualcuno. Mi chiedo anche se per caso è una visione ma, dai, non sono così andato no?

Riparto a camminare. Devo cercare il canale sulla sinistra che mi fa evitare il passaggio per il lago nero che vorrei raggiungere più tardi. Non avendo fatto la cresta devo risalire e riascendere sul Riepenspitze dallo stesso lato e per evitare di farlo dallo stesso sentiero (per la solita testa bacata) decido di risalirlo dal lato sinistro, quello più ripido ma anche quello meno segnato.

Il sentiero si muove fra sassi e doline in un territorio abbastanza lunare e perdo i segni almeno 5 volte. Controllo ogni volta il mio segnale sulla mappa fino a quando dopo troppo tempo per i miei gusti inizia finalmente la parte ripidissima verso la cima. 

Sono ormai sempre molto stanco quando risalgo ma questa volta ho una marcia in più.

Noto infatti sulla mia sinistra che il cielo inizia timidamente a cambiare colore sopra una cresta austriaca che vedo in lontananza. 

Ah, sta arrivando l’aurora!

Con il cuore che si scalda più del corpo, cerco di velocizzarmi per poter ammirare tutto dalla cima di una delle vette su cui sono salito più volte nell’ultimo periodo! Cerco di velocizzarmi ma le gambe non rispondono. Il fiato ancora meno. Faticaccia. La via risale molto ripida per cui bisogna entrare in modalità trattore. Testa bassa e via, mi concentro su mantenere il respiro regolare e riesco finalmente a trovare un po’ di ritmo. Scalo dove di solito passo in discesa e non mi sembrava mica così ripido! Certo che anche a ritmo la fatica è devastante. Finalmente dopo un lasco di tempo che mi pare interminabile vedo la croce sopra di me. Ci sono quasi.

Alle ore 05 e 30 arrivo finalmente in cima al Riepenspitze, una delle cime chiave della mia avventura! Saluto la cima con affetto e mi giro subito a guardare i colori all’orizzonte. La luce cambia molto spesso e l’aurora ormai è quasi completamente accesa. Perdo tempo a fare qualche foto e a godere finalmente di uno dei motivo per cui mi piace tanto stare fuori di notte. Vedere l’alba svegliandosi la mattina è bellissimo ma non è paragonabile a farlo dopo tutta una notte passata al buio e al freddo.

Perso completamente ad osservare questo capolavoro, mi rendo conto di non essermi neanche vestito. 

Me ne rendo conto quando ormai è quasi tardi tanto che decido immediatamente di mettermi i pantaloni lunghi per la prima volta per placare i brividi. Nuovamente bardato e protetto, proseguo il mio set fotografico all’orizzonte e mangio anche qualche merendina. Credo sia il momento più freddo della mia avventura e, ormai l’ho capito, arriva sempre poco prima dell’alba.

Lascio passare un po’ di tempo in cima questa volta perché mi sento di dover apprezzare questo momento.

Saluto il Riepenspitze solo perché mi accorgo che è ancora presto e probabilmente ho ancora tempo per risalire sulla prossima cima per vedere il sorgere del sole. Passerò però del tempo incastrato nei terreni vicino al lago nero e vorrei evitare che il sole sorgesse quando non ho panorama da vedere.

Scendo quindi dalla cima per la via che di solito uso per risalire dalla stumpf alm. Trovo assurdo il fatto che sia delicata ma per me è casa perciò non me ne preoccupo minimamente e mi muovo in discesa saltando fra un appiglio e l’altro con grande sicurezza. Effettivamente il conoscere rende tutto più agevole. 

Devo fare un piccolo tratto fuori sentiero per rientrare verso il lago nero dato che quello da cui sto scendendo mi porterebbe giù a Santa Maddalena. L’ambiente è lo stesso che ho affrontato per salire ma un po’ a sinistra orografica. Scendo per grosse zolle di erba evitando tratti ripidi e riportandomi di nuovo sui bolli CAI. Prendo preso la deviazione a sinistra per proseguire il mio giro e mi avvicino sempre più allo Schwarzee. La luce all’orizzonte continua ad essere giallo-rosacea e questo amplifica enormemente la bellezza del momento. Arrivo sopra il lago e perdo ancora diverso tempo a scattare qualche foto e ad osservare stupito la natura nel suo apice. 

Non sento nemmeno più troppo freddo tanto che penso per un attimo di togliermi qualche vestito ma decido di aspettare la risalita. 

Decido di non scendere al lago per non perdere tempo e riuscire così a vedere il sorgere del sole in cima all’Hellboden. 

Riprendo a camminare in un piccolo tratto saliscendi dove poi mi fermo a riempire nuovamente le borracce.

Sono felice di notare di aver bevuto già 4 litri abbondanti di acqua e mi accorgo con quasi sorpresa che sono passate ormai quasi 8 ore dalla mia partenza. 

Questa parte del viaggio la chiamerò: LUCE, VITA 

Hellboden, alba

Inizio finalmente la risalita verso l’hellboden. Ero qui due settimane fa perciò conosco il sentiero a memoria. Risalgo il primo tratto paludoso dando tempo al mio corpo di riabituarsi alle pendenze toste. Ogni tanto mi giro a guardare se il sole sta facendo capolinea per non perdermelo ma per fortuna sembra mi dia ancora un po’ di tregua. Supero la forcella che  in discesa mi porterebbe alla pfoi alm e proseguo verso l’alto. Drizzo la testa quando sento un rumore sopra di me. Osservo delle teste che mi guardo e penso subito ad un gruppo di mucche.

Mi avvicino e queste si alzano tutte molto spaventate. Ma non sono mucche. O almeno non mi pare. Sono più piccole e hanno delle facce strane. Sembrano pecoroni con le corna. Ne osservo una fare la cacca ma questo non mi aiuta a riconoscere la specie. Perdo un po’ di tempo a pensare a cosa possano essere ma poi me la metto via dicendo che tanto se se ne stanno per i cavoli loro non sarà un problema.

Le evito aggirando leggeremente a sinistra verso lo strapiombo. Immobili (a parte quella che cagava) non sembrano battere ciglio.

Raggiungo i prati sommatali dove la pendenza cala prima dell’ultima impennata verso l’anticima (la volta scorsa che ero qui avevo preso una bella beffa pensando di essere arrivato). Raggiungo la spalla di destra della montagna mentre improvvisamente il cielo si schiarisce e le nuvolette in parte alla luce forte si colorano di rosa. E’ il segno che il sole sta per sorgere. 

Continuo imperterrito a salire cercando di arrivare il prima possibile in cima.

Alterno tratti con la testa basta arrancante e tratti in cui cammino con il collo girato 90 gradi a destra per controllare il sole. 

Mi fermo poco prima della cima perché il sole sta arrivando e voglio vederlo sbucare. 

Un ulteriore segno del suo arrivo è vedere la cima del Monte Ripa già illuminata. Strafigo vedere la linea del sole che colora la parte più alta della cresta.

Guarda e guarda, ma quando arriva?

Ne approfitto per proseguire e, ansimando quasi più del solito, conquisto finalmente la cima dell’Hellboden!

Sono le 6 e 53 quando finalmente, pochi secondi dopo il mio arrivo, vedo la luce del sole comparire e infastidire i miei occhi! Incredibile il tempismo e sarei un bugiardo se dicessi che è tutto calcolato.

Non mi siedo, non mangio, non bevo. Guardo ovunque l’effetto del sole. Le cime alte sono ormai ovviamente tutte illuminate mentre la cresta sotto di me, perpendicolare ai raggi, ha la sua parte sinistra gialla mentre la destra esposta a nord è ancora scura come di notte. 

Scatto 4 mila foto cercando di immortalare questo spettacolo ma non ne verrà fuori nemmeno una che si avvicinerà all’essere qui.

Ma che roba è?

Preso dal momento, non mi sono neanche accorto che mi si sta scaldando la faccia. 

Accolgo il tepore con grande euforia. E’ sicuramente il momento più emozionante della giornata o nottata o chiamatelo come volete. 

I muscoli facciali si distendono per la prima volta da quando sono partito, li sento liberi di distendersi. 

La temperatura continua ad essere bassa ma c’è una differenza abissale rispetto a prima.

Il sole quando fa freddo è troppa roba. 

Sento la giornata nuova.

Sento un altro inizio.

Peccato solo che la mia discesa sia a nord, non può mica essere tutto perfetto vero? 

Dopo diverso tempo speso per dare importanza al sole, mi vesto e finalmente mi ristoro un po’. Guardo la mia prossima meta, l’Hochkreuz. Lui è un altro dei miei punti fermi, della mia quotidianità.

Decido di non perdere troppo tempo qui e riparto in fretta verso casa. 

Parto per la discesa sentendo subito le gambe particolarmente infastidite dall’ennesimo cambio di movimento. Le ginocchia iniziano a croccare e io reagisco puntando i bastoncini davanti a me per ammorbidire gli impatti violenti con il terreno. Il tratto in giù è per fortuna breve e presto raggiungo una serie di dossi attraverso i quali il sentiero passa.

Davanti a me i colori dei monti illuminati sono da favola e non perdo occasioni di immortalarli con il telefono ormai stanco dei miei click.

Prima di raggiungere la traccia della via normale che sale dalla Uwald alm, devo risalire una piccola spalla. La prendo di petto, euforico dal momento che sto vivendo. Ovviamente mi prendo una stecca e dopo 4 secondi di salita mi ritrovo piegato in due dalla fatica con le mani sulle ginocchia. Il respiro è di nuovo troppo affannoso e non ho ossigeno nelle gambe e in nessun’altra parte del corpo. Cercando di riprendermi, vedo la mia ombra proiettata sul fianco sinistro del prato in un’immagine affascinante e particolare. Ah, che belle ste cose!

Dopo la schiantata, mi devo levare il guscio e i guanti, troppo caldo. Decido di non togliermi i pantaloni lunghi perché se non sono al sole fa ancora decisamente troppo freddo. Risalgo ora verso la cresta dell’hochkreuz per un altro sentiero che conosco come le mie tasche. Risalgo gli scalini di legno larghi e poco ripidi che hanno messo per permettere agli imbecilli di salire. Per fortuna è un monte che richiede fatica e dislivello per salirci per cui secondo me gli imbecilli che ci salgono sono pochi.

Dopo gli scalini per gli imbecilli arrivo in cresta dove l’ultimo saliscendi mi porta verso la cima. Ah, il mio Hochkreuz ❤ 

Sono le 7 e 20 quando raggiungo la sua croce!

Questa volta, per la prima volta da quando sono partito, me la voglio godere.

Mi siedo, accasciandomi per terra accanto alla croce. Con il sole in faccia, posso mangiare e riposarmi finalmente in cima ad una montagna! 

E’ ormai mattina ed è iniziato un nuovo giorno. Mi pare quasi di essere in una normale giornata in montagna adesso se non fosse che gli occhi mi si chiudono da soli. E devo dire che si sta parecchio bene seduti!

Cerco di capire a che punto sono della mia avventura. Sono passate più di 9 ore dalla partenza e sono di fatto a metà della valle. Peccato che la metà della valle non coincida con la metà del giro. Mi manca tutta la cresta di confine fra Casies e Anterselva e mi rendo conto (anche se ci avevo già pensato diverse volte) che completare oggi questa avventura nella sua versione integrale è impossibile. Faccio mente locale su tutto quello che mi manca e da questo momento in poi farò mente locale soprattutto su come tornare alla macchina. 

Il bello e il brutto di questa avventura è che l’ho pianificata solo all’ultimo momento tralasciando diverse cose che sarebbero anche importanti tipo appunto come rientrare al punto di partenza. Ho ancora diverse possibilità ma visto che ormai il mio orologio segna 3300 metri di dislivello di salita decido che il prossimo obiettivo sarà di raggiungere i 4000. Dopo quello potrò realmente pensare di tornare a casa. Guardo la cartina sul telefono e cerco di capire quali possano essere le prossime mosse intelligenti. 

Nel frattempo sto continuando ad aggiornare a casa rassicurando così soprattutto me stesso ma spero un po’ anche loro. 

Decido che il prossimo passo sarà scendere fino alla forcella di Casies e poi invece di tagliare in quota scenderò 300 metri per arrivare in malga.

Eh si, voglio proprio qualcosa di caldo.

Guardando l’ora ipotizzo un mio arrivo nella civiltà intorno alle 8 e 30 e mi auguro che a quell’ora ci sia qualcuno disponibile a preparami un tè. 

Inizio a fantasticare e avere illusioni su quanti tè berrò e su cosa diranno i gestori della malga nel vedere la mia faccia sbattuta.

Fra illusioni e sogni mi incammino alla volta della discesa.

Questa parte del viaggio  la chiamerò: KARMA 

no comment

Stupendo anche me stesso, questa parte del percorso non l’ho mai vista. Sono stato infinite volte su questa montagna e anche con infinite condizioni, ma non sono mai passato dal lato nord ovest ovvero il lato che arriva dalla forcella di Casies. Sono incuriosito e questo mi fa per un momento dimenticare la sofferenza immancabile della discesa. Questa è la seconda vera discesa del mio giro e mi porterà a scendere 800 metri di dislivello. Si ormai ho deciso che scenderò fino alla malga per cercare ristoro e qualcosa di caldo.

La prima parte di sentiero è in cresta e c’è pure una maledetta risalita di un metro e mezzo circa. Ma sapete quanto è un metro e mezzo di salita mentre state scendendo? Impreco contro i pioli di legno incassati nella terra. Ma non potevano tagliare un pezzo di montagna per farmi scendere? 

Poi arriva la discesa vera ed è ancora peggio. Su un sentiero di sassi, veramente molto simpatico, cerco di districarmi scivolando a valle. Impreco di nuovo pensando a quanto sarebbe figo scendere con gli sci adesso, e invece.

Ci sono tanti tornantini. Belli eh, ma a furia di girare il corpo per seguire lo zig zag mi gira quasi la testa. Quando la testa non gira rischio di addormentarmi sotto la luce soffusa di una mattina in cui le nuvole stanno già comparendo. Mi sveglio quando vedo un po’ di vuoto a sinistra e devo fare di nuovo un attimo di attenzione. Tutto questo poco prima di arrivare ancora su erba bagnata e rischiare di girarmi la caviglia per una distrazione.

Quasi già molto sofferente, mi avvicino alla forcella di Casies dove alcuni ruderi di fortificazioni militari mi fanno sentire un turista della domenica. Resisto allo stimolo di farmi un selfie per non sentirmi troppo turista. 

Raggiungo la forcella e tento di continuare la discesa verso la malga segnata dal cartello a 20 minuti in discesa.

Ci provo, ma non c’è nè. Decido di fermarmi e sedermi un attimo. 

Perdo 5 minuti eh, ma fondamentali per mangiare ancora una barretta e bere un po’ di acqua. Sono cotto.

Riparto in discesa alla volta della malga. Sogno e spero che i gestori siano così gentili da prepararmi un tè così presto la mattina (sono le 8 e 15). Spero che la mia faccia assonnata non li spaventi troppo. Sostanzialmente spero di fare pena. 

Il sentiero nel frattempo è diventato una specie di autostrada con la terra spianata dalle troppe persone passate. Ghigno pensando che sono da solo mentre qui in un altro momento ci sarebbe ressa. Ci sono alcune trappole sotto forma di filo elettrificato per le mucche che passa ad altezza stinco. Non so come sia possibile ma nei 10 attraversamenti (o forse erano solo 3) non mi inciampo mai.

Comunque, la malga è lì, a 100 metri.

La vedo, la studio, la osservo. Vedo dei tavoli da sagra fuori e almeno ho la certezza che sia gestita e aperta al pubblico. Però ecco, non si vede troppo movimento per dirla in modo divertente. Sembra abbandonata.

Con ancora grande speranza, mi avvicino.

Passo dal lato destro dove vedo tanti tanti tavoli e pure il gel per le mani. Sembra una roba molto commerciale. Top, vuoi che non mi facciano un tè? Potrei denunciarli se ciò non avvenisse. 

Mentre mi accingo ad avvicinarmi alla porta, intravedo con la coda dell’occhio una targhetta sul muro. Leggo la scritta che recita: “martedì’ giorno di chiusura”. Dentro di me penso, vabbè ma che giorno è oggi?non sarà mica martedì no? Non è martedì vero? Porca troia non è mica martedì’ vero??

Eh, serve che continui a raccontare i particolari????

Affranto, afflitto, sconfitto.

Ma la domanda è, perché?? Me lo meritavo? Chissà…

Per ripicca decido di usare i loro tavoli. Per fortuna in un ulteriore momento di lucidità che non si capisce come possa esserci, noto che i tavoli e le panche sono completamente bagnati. Stavo per sedermi eh! Sarebbe stata sicuramente troppo. Per fortuna mi accorgo in tempo e vado a sedermi su una panca gigante di legno che è sotto la tettoia.

E’ ora di andare avanti,  come dopo ogni batosta.

Reietto la brutta novità e inizio a mangiare più che posso. Finisco la pasta che devo dire rimane la cosa migliore che mi sono portato dietro. Mangio ancora qualche merendina e bevo acqua che ho ricaricato nella pausa precedente. 

Adesso mi aspetta una lunga salita di circa 800 metri di dislivello. Sarà l’ultima lunga e per affrontarla vorrei essere preparato e riposato. 

Finito di mangiare impreco ancora un po’ contro il mancato tè caldo e mi cambio. Sono infatti già quasi le 9 di mattina e dove c’è il sole la temperatura è piacevole. In più comincio a sudare alle gambe e questa è una sensazione che odio profondamente. 

Rimetto le braghe corte  (quelle lunghe sono durate circa 3 ore) e tolgo la termica. Metto una maglietta a maniche corte con felpa sopra per il primo tratto ripido di salita. 

Questa parte del viaggio la chiamerò: GLORIA VERSO I 4000

hinternergkofel

Riparto e ho già messo alle spalle tutto. Sono eccitato per diversi motivi. La prossima cima in programma si chiama hinterbergkofel e anche a questa sono legato per vecchie avventure. Sono eccitato perché quando arriverò in cima avrò fatto 4000 metri di dislivello che non ho fatto tante volte nella vita. Sono eccitato perché c’è salita e di discesa ne ho piene le palle. Sono eccitato perché la mia faticaccia la sento già ripagata da quello che ho vissuto e tutto quello che arriverà da qui in poi sarà un plus. Sono eccitato.

Riparto in salita su un sentiero a tornanti nuovamente molto ripido. La traccia deve collegarsi al traverso alto che si chiama weg 2000. Seguo diligentemente la traccia perdendomi solo una volta per colpa di torrentelli paludosi che mimetizzano i passaggi. Almeno mi piace pensare sia colpa loro. 

Arrivo vicino al traverso e incontro il 400esimo gruppo di mucche che mi osserva. Ci sono in ogni caso più cacche che mucche e viste le recenti pestate sto molto attento a dove metto i piedi. Questa volta passo indenne. 

Inizio il traverso verso sinistra e verso la malga non mi ricordo come si chiama. Alla prima fontana che incontro tiro dritto perché non voglio perdere troppo tempo. Ma la seconda mi sembra un segno del destino per cui mi fermo a bere e bagnarmi la faccia mezza addormentata. Arrivo presto al vallone che si apre sulla destra e che mi porterà in cima alla prossima montagna. 

Scendo verso il torrente e verso il cartello di incrocio con il sentiero di salita. Qui faccio una ulteriore pausa per ricaricare le borracce perché nelle prossime ore non troverò acqua sicuramente. 

Mi siedo su un altro sasso. 

Mi sembra di essere monotono. Sempre mucche, sempre sassi su cui sedersi. Per fortuna c’è molto di più.

Dopo una pausa breve, sono pronto a ripartire. 

Non guardo l’orologio, non voglio sapere quanto mi manca per arrivare a 4000 mila. Parto in salita, carico come una molla.

Le energie… ci sono! Non so come sia possibile ma mi sento quasi bene. Le gambe vanno. Il passo certo non è quello della partenza ma il ritmo è buono e guadagno quota con velocità e relativa facilità. Il sentiero aiuta, ripido al punto giusto e non scalinato, mi permette una grande costanza e mi evita piegamenti potenzialmente devastanti. Carico più peso che posso sui bastoncini e sento i muscoli delle braccia spingere e lavorare. Splendida questa sensazione. Adoro camminare in salita. Il respiro è regolare. 

Macino metri su metri con grande orgoglio. Sento forza dentro di me, sento potenza.

Intorno a me, o meglio sopra, delle nuvole più viola che grigie si stanno addensando. Inutile che vi ricordi la mia ansia per i temporali in montagna. Questa mattina ho già controllato il radar tre volte ed è l’unico motivo per cui non me la sto facendo sotto. 

Potrebbe fare un po’ di acqua ma i temporali sono previsti solo nella seconda parte del pomeriggio. Mentre continuo le mie fatiche, inizia a piovere. E’ quasi un sollievo. L’acqua cade leggera leggera, con gocce distanti e per nulla invasive. La sento sulle mia braccia, in testa. Un refrigerio utile vista l’umidità eccessiva che mi sta abbracciando da tanto tempo. Il corpo sudato si rinfresca e apprezza.

Ho raggiunto il primo altipiano. Devio a sinistra dove il sentiero molla un attimo la pendenza prima di riprendere incazzato verso l’alto. Riprendo a spingere con le punte dei piedi mentre sento i polpacci tirarsi e i quadricipiti sfiammare. Qualche sbuffata, ancora. Mi sembro un treno a vapore. 

Completamente in trance, mi sembra di andare a 200 all’ora anche se probabilmente vado a 1. In uno dei rari momenti in cui guardo verso l’alto, noto da lontano un uomo che scende dalla montagna. Penso subito che è presto e che quindi dev’essere un figo o più semplicemente uno del posto. 

Continuo a salire fino a quando ci incrociamo.

Lo saluto e ricambia con cordialità. Chiacchieriamo. Gli chiedo se è stato in cima. So che è una domanda scontata ma è un modo per fare conversazione. Mi chiede da dove arrivo. Gli spiego che sono partito la sera prima. Non sembra capire. Mi chiede da dove e gli rispondo da dove sono partito. Mi fa ridere solo a pensarci. Non credo capisca. Gli dico che è la prima persona che incontro da quando sono partito e mi guarda sbigottito. A ripensarci sarebbe stato strano incontrare qualcuno prima di adesso. Ma lui probabilmente pensa che io sia via da un giorno. Non credo che stia realizzando che sto camminando da tutta la notte. Decido di non spiegaglielo, sarebbero troppe energie da spendere. Comunque, non so neanche se ha capito la mia felicità di vederlo. Quando si è così tanto da soli in montagna non si sdegna mai un saluto a qualcuno che si incontra.

Lo saluto, ringraziandolo senza dirlo per la pausa che mi ha fatto fare. Riparto. Le ripartenza, oddddddddiooo le ripartenza.

In coma, mi consolo guardando l’orologio che segna ormai 3920 mt di ascesa. Uaaaa ci sono quasi.

Con questa spinta morale, riprendo presto il mio passo da trattore e non stacco più gli occhi dall’orologio fino a quando non segna 4000. Vedo gli zeri che compaiono e..sono molto contento. Lascio che il brivido di gioia si liberi nel mio corpo. Mi faccio spingere in alto dalla gioia del risultato raggiunto. Monto in cresta senza neanche accorgermi di aver superato la solita scalinata a pioli. Gli ultimi metri prima della cima sono una grande sofferenza ma ormai ci sono e posso ammirare da posizione privilegiata il Collalto grigio che mi guarda. Sento nuovamente delle belle cose dentro di me. Per la seconda volta ho quel senso di pienezza che è dato solo dalla fatica fatta per raggiungere il posto e il momento in cui sono ora.

Raggiungo la cima dell’Hinterberkofel alle 10 e 20 di mattina, qualche istante prima che schiocchino le 12 ore da quando sono partito.

Mi siedo, è ora di riposare. 

Lascio che il tempo scorra senza farci attenzione. Lascio che i miei muscoli si smollino completamente. In questo momento non ho sonno. E’ strano. 

Mangio un panino allo speck. Lo sento salato in modo esagerato tanto che non lo finisco. Mi carico di acqua e devo vestirmi perché sono di nuovo in alto alto e di nuovo il venticello è poco piacevole. Non mi basta la felpa, devo mettermi anche il guscio e i guanti. 

Mi copro in modo tale da non soffrire. Di Solito non è così ma in questo giro la mia attenzione ai dettagli è decisamente più alta. Spesso mi sono trovato a camminare abbigliamento anche per poco tempo proprio per sentirmi il più possibile a mio agio e senza amplificare sofferenze e fatiche che già ce ne sono abbastanza.

Ad un certo punto sento che devo andare. Mi alzo e sono pronto a ripartire.

Questa parte del viaggio la chiamerò: MA DOVE CAZZO VADO??

nella merda

E ora? Ora è il turno della parte probabilmente più tecnica. Anzi, sicuramente la più tecnica!

Devo percorrere la cresta che mi porterà verso la Croda Rossa di Anterselva.

É 12 ore che penso a come terminare il giro e ormai le idee sono quasi chiare. Ho capito che non riuscirò mai a completare la mia avventura integrale. Troppa strada da fare, troppa davvero. Ho ideato un programma alternativo che mi porterà più o meno facilmente alla macchina. Le alternative sono percorrere tutta la cresta fino al regelspitze e poi proseguire fino a hohermann e fellhorn per poi scendere. Ma vedi intoppi anche qui. Dovrei superare tratti di cresta delicati che non so se sono in grado di gestire in queste condizioni. L’alternativa che ho è di percorrere la cresta fino a prima del regelspitze e poi calarmi da qualche parte per andare all’auto. Decido di andare avanti per la cresta fino a dove mi sento. 

Il primo tratto fino al kaserspitze ed Edelweissknopf lo ricordo facile e così è. Ci sono solo infiniti saliscendi che maciullano le mie gambe molto più del mio spirito. 

La testa c’è. E’ ancora pensante e capace di godere di un posto come al solito unico.

Aggiro spigoletti e metto i piedi su molti sassi per raggiungere le cime sopracitate. Mi sorprendo della mia velocità di crociera ma presto ne subirò le conseguenze. 

Manca ora la seconda parte che ricordo ancora tranquilla fino all’Aukserspitze. Ricordo male però.

Inizio  a soffrire i cambi di pendenza troppo repentini e il mio passo viene rallentato da un terreno sempre più ostico. Qui sono passato due volte, una con Igor l’anno scorso e una un mese fa con Stefano e Matteo. Giri che avevo fatto proprio per esplorare passaggi per questi giro. Questo mi rassicura e mi consola e sarà l’unico motivo per cui alla fine riuscirò a passare. L’unico problema è che entrambe le volte passate ero nell’altro senso. Oggi mi manca qualche punto di riferimento e ho qualche avvisaglio quando devo fermarmi per cercare il proseguo dell’esile traccia. 

Una prima volta risalgo a destra un ripido ghiaione che in discesa era fastidioso. 

Poi arrivo ad un punto che mi sembra cieco e riconosco al contrario un passaggio che mi sembra impossibile in questo momento.

Do fiducia ai miei ricordi e supero una quindicina di metri abbastanza verticali su zolle erbose che mi portano a sormontare uno spigolo altrimenti insuperabile. Felice di aver creduto in me stesso, mi rendo conto che lo ricordavo comunque molto più banale. Chissà se ero davvero passato di qui.

Comunque questo pezzettino molto esposto mina il mio umore. Mi rendo conto di non essere invincibile e anche quanto mi costi fare dei tratti così in termine di attenzione. Non so quanto sono lucido. Boh. Continuo. 

LA cresta prosegue sempre più erbosa e mi ritrovo a risalire un altro cocuzzolo che è più grande e si chiama Rotelspitze. Prima di arrivarci vedo tratti erbosi che ricordo ma ad un certo punto mi ritrovo su erba e basta. Non vedo più traccia. Cerco di risalire fino alla cresta dato che sono sul lato sinistro dove le erbe cadono abbastanza dritto. 

Raggiungo l’apice e mi rendo conto che qualcosa non va. Di qui non si passa. Ma dove ho sbagliato? Maledizione. 

In un baleno il mio umore cambia. Mi rendo conto di non aver voglia di essere impegnato mentalmente. Però devo farlo e basta.

Faccio qualche metro indietro. Trovo delle chiazze di terra e provo a seguirle verso il basso. E’ tutto molto delicato. 

L’erba è folta e seppure non bagnata è tutta obliqua e non permette facili appoggi. Sotto di me è tutto troppo verticale e sarebbe impossibile arrestare qualsiasi scivolamento. Ma che cazzo ci faccio qui?

Muovo un arto alla volta. Cerco di puntare i bastoncini in basso in modo da mantenere i piedi più perpendicolari al terreno. Passo il primo tratto erboso ma mi ritrovo sopra ad alcune rocce ripide. Cerco di rievocare ricordi ma la prospettiva è completamente diversa e passare di qui in salita è tutt’altra storia piuttosto che farlo in discesa come sto facendo ora. 

Mi barcameno un attimo. Più volte cerco modi di scendere fino a quando uso la tecnica di culata per calarmi fra alcuni salti di roccia. Quadagno finalmente, con molte ansie (troppe) una traccia di camosci. La seguo e vedo che mi riporta verso l’alto in un ambiente meno impervio ma comunque ancora esposto. 

Riprendo finalmente la traccia più grande che comunque non è un sentiero. Eh si, questa parte è tutta fuori sentiero. 

Riprendo anche ad avere battiti del cuore normali e sento improvvisamente tutta la fatica accumulata. 

Mi sento un po’ uno scemo per essermi trovato in questa situazione, ma non è ancora il momento di piangersi addosso.

Proseguo la salita e in cuor mio ho deciso che appena raggiungerò l’Auksperspitze terminerà la mia avventura sulla cresta. 

Adesso la traccia è più tranquilla e fra erbe e rocce più agevoli raggiungo la cima appena citata. Un omettonone di pietra mi accoglie. E’ uno di quelli ometti che ti fanno sentire conquistatore di un posto selvaggio, solitario. 

Mi accascio a terra, ancora. Sono stanco, esausto. Guardo il Regelspitze e non trovo alcun motivo intelligente per raggiungerlo. La cresta per arrivarci è la parte più esposta e impegnativa del mio giro. Non ho le forze. Non ho la voglia. Non lo faccio.

Non mi sento un conquistatore, non voglio essere uno di quelle persone che mette x sulle cime raggiunge. Non mi piace. Vivo la montagna perché mi piace starci, mi piace viverla e girarla. Mi piace gustarla. Ora sono arrivato al punto in cui voglio scendere. Voglio andare a casa.

Mangio. Guardo il cielo grigio e azzurro. Guardo la forcella di monte regola. E’ da diversi minuti che l’ho inquadrata come salvezza. So che la discesa dalla cima in cui sono verso la forcella è rognosa perché su terreno infame ma non è esposta. Non è pericolosa. Andrò di là.

Una volta raggiunta la forcella so che avrò la discesa infinita verso la “valle dell’Amperpsitze”, così la chiamo io. E poi da li’ strada bianca altrettanto infinita fino alla macchina.

E’ ora di tornare a casa.

Comunico le mie decisioni ai miei angeli custodi a casa. Bello avere qualcuno con cui condividere quello che si fa. Da sicurezza. Calcolo un paio di ore al massimo per la discesa ma anche qui farò un’errore. 

Dopo un pit-stop che sa di termine viaggio, sono pronto per la discesa finale. Oddio, pronto proprio no. Se avessi un aereoplano sarebbe perfetto.

Via Marco, Viaaaaa

Questa parte del viaggio la chiamerò: ULTRA 

Parto per la fine. Ma…dove si va? Mi giro a destra e a sinistra prima di ricordarmi che i primi metri sono dritti. Cerco il passaggio fra le rocce e lo trovo dopo poco. Senza usare le mani, ormai sicuro e deciso perché consapevole di uscire dai guai, scendo i 5 metri molto ripidi e mi porto nel canale roccioso che scende verso il passo Stalle. Ci sono rocce frantumate ovunque. Tante sono instabili e sono alternate con ghiaie smosse e grosse. La pendenza è elevata ma non c’è esposizione. Scendo sentendo che le ginocchia sono troppo cariche. Difficile usare i bastoncini su questo terreno. Prendo un paio di stecche alle caviglie, di quelle che fanno mugugnare. 

Mi porto in basso, finalmente. 

Esco dal versante di discesa e proprio mentre sto per raggiungere l’ex mulattiera che dal passo stalle raggiunge la forcella del monte Regola, incrocio due signori che risalgono.

Ci salutiamo. Sono il mio secondo incontro in 14 ore. 

Sono tedeschi e comunichiamo con un italiano tedesco che mi trova perfettamente a mio agio. Mi hanno visto scendere dal ghiaione e mi dicono che loro preferiscono il sentiero. Non sto a spiegarli perché e per come e gli dico hanno certamente ragione loro. Il signore è molto acceso dall’incontro e inizia a parlarmi della mulattiera che stanno percorrendo. Mi chiede il termine italiano di quelli che una volta la percorrevano. Gli rispondo “pastori” e mentre la signore se ne esce con un “ja genau”, lui non è convinto.

Insiste e riesce a dire qualcosa che interpreto come un “quelli che volevano passare senza farsi vedere”… ahhhhhh CONTRABBANDIERI!

Salta di gioia e si narra che ripeterà la parola contrabbandieri almeno fino a quando io arriverò alla macchina ore più tardi. 

Saluto i signori anche se andiamo nella stessa direzione. Io ora ho solo voglia di arrivare a casa. 

Risalgo fino alla forcella e per fortuna la risalita è talmente breve che non ho tempo per avere il fiato corto.

Ma non è la salita a preoccuparmi.

Arrivato in forcella tiro dritto iniziando il sentiero che segue fedelmente le linee di spalloni e collinette nella valle. Le mie gambe durano 5 minuti dopodiché inizia una fase di sofferenza pressoché totale. 

Scendo seguendo i segni e con lo sguardo sempre più basso. Infinita ragazzi, infinita.

Mi avvicino alle malghe dove un ultimo zig-zag ripido sembra il colpo di grazia che non credo di meritarmi. Ogni tanto mi fermo cercando i allungare le gambe. Il problema sono le ginocchia che ormai poco supportate dai muscoli hanno tutto il carico dei miei 90 kg più i 150 dello zaino. Si perché ho mangiato di tutto ma lo zaino mi sembra sempre più pesante. Un giorno scoprirò chi mi mette i sassi dentro.

Raggiungo finalmente i prati sopra la kaipare alm. Vedo infiniti puntini bianchi. Ormai facci fatica a credere pure a quello che vedo. Vedo animali tutti completamente bianchi con il collo lungo. Ma che cazzo sono, oche? Ma saranno 500.

Oche in montagna? Marco ci sei?

Scendo verso il basse e continuo a mescolare oche a pecore o ad altri esseri sconosciuti. Sono ovviamente  pecore. Tutte e 500 appollaiate con il collo girato verso di me. Non mi sento osservato nono. 

Nel frattempo il sentiero nei prezzi della malga è diventato strada e ne devo saltare un pezzo per evitare di trovarmi nel gregge di oche. Il tratto erboso fuori strada mi costa tanto, tantissimo. Sento coltellate dentro le ginocchia tanto che mi riprometto di non prendere più nessun taglio. Farò così ma guadagnerò una quantità di km che mi farà quasi rimpiangere la scelta.

Rientro nella strada bianca. Inizia il calvario. Cercando di molleggiare le caviglie, inizio a scendere. Sembro uno zombie probabilmente ma per fortuna neanche qui c’è anima viva. A parte le oche di prima ovviamente. 

Cerco di estraniarmi dal corpo. Ma quanta fatica sto facendo? Sono ormai distrutto da tutto quello che è successo. Tante energie mentali se ne sono andate di pari passo con quelle fisiche. Sono scarico. Ho sonno, sono stanco. Scendo senza neanche riuscire ad aumentare la velocità quando la strada scende più ripida. Attraversando un fiume mi ricordo di non aver fatto più pause da quando ero in cima. E’ passata quasi un’ora. Cerco un sasso. Senza un sasso Marco non si siede. Trovo un sasso. Mi siedo. Tolgo le scarpe. Mi cade lo zaino. Bevo. Mi tiro acqua in faccia. Madonna che dormita che mi sparerei.

Dai Marco, dai che bisogna andare a casa. 

Mi rendo conto di essere immerso in quel mondo ultra che ho scoperto ormai qualche anno fa. Quel mondo in cui anche se stanco e finito in qualche modo vai avanti. Qui in particolare non ho alternative quindi è anche facile farlo no? 

Dopo essermi sconfinato 3 crostate di seguito (le ultime) decido di mangiare un pacco di Ringo. Come uno stupido mi accorgo che avrei dovuto mangiare di più nelle ultime ore. La prendo bene pensando che adesso dopo aver mangiato ritroverò le energie per una discesa più dignitosa. Illuso, povero illuso. Riparto e ci impiego mezzo tornante a sentirmi spossato come prima. Madonnaaaaaaaa.

Raggiungo la valle dell’amperspitze con grande euforia ma anche qui mi dimentico che la strada è ancora lungo. Inizio l’ultimo tratto poco ripido di almeno 5 km e sono ormai stufo. In più il sole picchia e fa troppo caldo. Uso ogni fontana per versarmi acqua addosso e continuo a mangiare Ringo per darmi vigore. 

Incontro qualche turista imbecille che saluta quasi sforzandosi. Maledetti.

Raggiungo la malga che è il punto di partenza di questa gita. Peccato che la mia macchina sia in valle sotto, 200 metri più in basso. Ultimo sforzo Marco dai, daiiii.

Provo a seguire la strada cementata per evitare il taglio ripido nel bosco ma dopo due macchina incrociate nel giro di un minuto mi innervosisco e prendo il taglio. Trovo forze nei muscoli solo perché sto per arrivare. 

Guardo l’orologio, sedici ore. SEDICI. 

Vedo la macchina, la vedo! La saluto da lontano, la fotografo, la amo.

La raggiungo quasi con un salto e la prima cosa che faccio e’ aprire una portiera e sedermi dal lato del passeggero. 

Mi tolgo le scarpe. Non faccio niente. Niente.

Sono passate 16 ore e 16 minuti. Sono le 14 e 30 quando termino il mio giro dopo 55 km e 4440 metri di dislivello in salita. Qualcosa sono riuscito a fare dai. 

Questa parte del viaggio la chiamerò: RIPOSO, PACE

ultima cima, Aukserspitze

Il ritorno a casa in macchina, le due birre bevute, la doccia, il crollo sul divano e la dormita fino alle sette di sera, sono un ricordo offuscato. 

Le gambe si muovono a fatica. La testa deve metabolizzare.

Passo molto tempo sul divano a riposare, a scrivere, a pensare. 

Amo queste avventure perché mi danno così tanto. 

Amo viverle in ogni suo aspetto. Mi ingalla l’organizzazione, mi spaventa l’inizio, mi emoziona il durante. Mi lascia qualcosa la fine. 

Scrivendo ho modo di rivivermi passaggi di quello che è stato.

Sono stanco, molto. Non ero allenato per questo, non per una notte fuori da solo in montagna che non avevo mai fatto. 

Mi sento più forte. Ho superato una paura. Più volte ho scacciato l’idea di avere problemi da non riuscire a superare. Sono convinto che questo mi aiuti nella vita. 

Sono fiero. 

Sono contento di aver qualcosa da raccontare. 

Sono contento di aver fatto qualcosa di raro. 

Sono Stanco.

Sono finamente riposato, rilassato.

Vagare o meglio vagabondare per la montagna mi ha dato tempo per riflettere su tante cose. Mi ha dato tempo per staccare la testa dallo schifo che c’è in giro. 

Niente stress. Pace. 

La chiudo qui, consapevole che sarà sempre più difficile realizzare progetti di questo tipo e forse proprio per questo sarà sempre emozionante.

Grazie a chi mi ha aiutato a portare avanti l’idea e ha condiviso con me momenti di questa incredibile avventura.

Ciao ❤ 

2 pensieri su “Concatenamento Cresta di Casies

  1. Che dire? Grazie di farci sognare
    Abbini le tua voglia di avventura ad una ottima capacità di raccontare
    Continua nel tuo sogno
    E grazie di condividere
    Specialmente con chi non può fare nemmeno un decimo di quello che fai
    Grazie

    Piace a 1 persona

  2. Che dire? Grazie di farci sognare
    Abbini le tua voglia di avventura ad una ottima capacità di raccontare
    Continua nel tuo sogno
    E grazie di condividere
    Specialmente con chi non può fare nemmeno un decimo di quello che fai
    Grazie

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